Cane vs gatto, il primo vince la sfida dei neuroni – I numeri promuovono a pieni voti il cane, un vero “cervellone” del mondo animale che conta 530 milioni di neuroni corticali, contro i 250 milioni del gatto (l’uomo ne possiede ben 16 miliardi). Insomma, secondo quanto stabilito dallo studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Neuroanatomy da un gruppo internazionale di ricerca guidato dalla Vanderbilt University, negli Stati Uniti, il fedele amico di casa dimostra, dati alla mano, di essere un autentico genio dell’universo a quattro zampe. Negli ultimi dieci anni la caccia ai leoni è triplicata, attualmente vengono uccisi circa 1500 esemplari ogni anno © Ingimage
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Quanti neuroni hanno i gatti ei cani?
“Sono più intelligente di te”. KEYSTONE/EPA/MOHAMED HOSSAM sda-ats Questo contenuto è stato pubblicato il 30 novembre 2017 – 18:12 (Keystone-ATS) Non è un caso che il cane sia diventato il migliore amico dell’uomo: il suo cervello contiene il doppio dei neuroni rispetto a quello del gatto.
A mettere un punto fermo nell’eterna lotta tra Fido e Micio, è il primo ‘censimento’ delle cellule nervose presenti nella parte più evoluta del cervello (la corteccia cerebrale) di otto specie di carnivori, domestici e selvatici, inclusi orsi, leoni, furetti, iene, manguste e procioni. Lo studio è pubblicato sulla rivista Frontiers in Neuroanatomy da un gruppo internazionale di ricerca guidato dalla Vanderbilt University, negli Stati Uniti.
“In questo studio volevamo confrontare diverse specie di carnivori per vedere la relazione tra il numero di neuroni e le dimensioni del cervello”, spiega la neuroscienziata Suzana Herculano-Houzel. “Penso che il numero di neuroni di un animale, specialmente nella corteccia cerebrale, determini la ricchezza del suo stato mentale e la sua abilità nel prevedere cosa accadrà nell’ambiente circostante sulla base delle esperienze precedenti”.
A quanto pare, i numeri promuovono a pieni voti il cane, un vero ‘cervellone’ che conta ben 530 milioni di neuroni corticali, contro i 250 milioni del gatto. Niente a che vedere con i 16 miliardi di neuroni dell’uomo, certo, ma di sicuro un bel gruzzoletto utile a superare le difficoltà di tutti i giorni.
“Premesso che sono cinofila al 100% – ammette la ricercatrice – i nostri dati suggeriscono comunque che i cani hanno la capacità biologica di fare cose più complesse e articolate rispetto ai gatti. Per lo meno, adesso abbiamo delle informazioni di carattere biologico da usare nelle discussioni su chi sia più intelligente, tra cane e gatto”.
- Abbandonando per un attimo il ring tra cinofili e gattari, sull”Arca di Noè’ delle neuroscienze si trovano tanti altri numeri interessanti.
- Si scopre ad esempio che i carnivori non hanno sempre un cervello più evoluto degli erbivori, anzi: quelli di taglia medio-piccola hanno un rapporto tra neuroni e dimensioni del cervello che è paragonabile a quello degli erbivori.
I grandi carnivori, invece, hanno cervelli più grossi ma più poveri di neuroni: il leone, ad esempio, ne conta meno di un golden retriever, mentre l’orso bruno ne ha quanti il gatto, sebbene il suo cervello sia 10 volte più grande. Infine emerge a sorpresa il procione che, per quanto piccolo, ha un numero di neuroni paragonabile a quello dei primati.
Qual è l’animale con più neuroni al mondo?
Domanda di: Noel Milani | Ultimo aggiornamento: 28 marzo 2023 Valutazione: 4.7/5 ( 26 voti ) Gli elefanti hanno il cervello più grande di tutti gli animali terrestri (tre volte più grande del cervello umano) con un peso record da 4,7 chilogrammi. Il loro cervello contiene 257 miliardi di neuroni (per fare un confronto, pensate che il nostro cervello ha circa 100 miliardi di neuroni).
Chi ha più neuroni il cane o il gatto?
STUDI SULL’INTELLIGENZA DEL CANE E DEL GATTO – Secondo uno studio della del Tennessee (Usa), i cani sarebbero più intelligenti dei gatti, I ricercatori sarebbero giunti a questa conclusione considerando il numero dei neuroni, il metodo migliore – al momento – per quantificare l’intelligenza di un animale.
Quanto è il QI di un gatto?
Taglia – Il cervello del gatto domestico ha una lunghezza di circa 5 cm e un peso di 25-30 g. Poiché un gatto tipico ha una lunghezza di circa 60 cm e un peso di circa 3.3 kg, il cervello rappresenta circa lo 0.91% della sua massa corporea totale (a paragone, il cervello umano occupa il 2.33% della massa corporea totale).
- Tra i quozienti di encefalizzazione proposti da Jerison nel 1973, i valori superiori a 1 sono classificati come “di cervello grande”, quelli inferiori a 1 come corrispondenti a “cervello piccolo”.
- Al gatto domestico vengono attribuiti valori compresi tra 1 e 1.71 (gli esseri umani hanno quozienti compresi tra 7.44 e 7.8).
Fra tutti i felidi, i cervelli più grandi appartenevano alle tigri di Bali e Java, La maggior parte degli esperimenti tendenti ad avvalorare la dipendenza dell’intelligenza dalle dimensioni del cervello poggiano sul presupposto che il comportamento complesso (cioè intelligente, che dimostri almeno in apparenza dei livelli di vera comprensione ) richieda un cervello complesso, il che, tuttavia, non è stato dimostrato in modo coerente.
Quanti neuroni ha l’uomo?
Quanti neuroni abbiamo nel cervello? Il cervello umano è costituito da una complessa rete di neuroni, Questi neuroni fungono da elementi costitutivi del sistema nervoso, trasmettendo informazioni da e verso il cervello e in tutto il corpo. Quanti neuroni ci sono nel cervello umano? Per molti anni sembrava una domanda che gli scienziati pensavano di aver risposto – e la risposta era “circa 100 miliardi”.
- Se andassi a cercare, troveresti quella cifra ampiamente ripetuta nella letteratura delle neuroscienze e oltre.
- Ma quando una ricercatrice in Brasile, la dott.ssa Suzana Herculano-Houzel, ha iniziato a scavare, ha scoperto che nessuno sul campo sapeva da dove provenisse la cifra di 100 miliardi.
- Quindi si è messa alla ricerca della cifra reale.
Ciò ha prodotto una ricerca importante, e per alcuni aspetti inquietante.
- Il suo team ha preso il cervello di quattro uomini adulti, di 50, 51, 54 e 71 anni, e li ha trasformati in quella che lei descrive come “zuppa di cervelli”.
- Tutti gli uomini erano morti per malattie non neurologiche e avevano donato il cervello per la ricerca.
- “Mi ci sono voluti un paio di mesi per fare pace con l’idea che avrei preso il cervello di qualcuno o di un animale e l o avrei trasformato in zuppa “, ha affermato la ricercatrice.
- “Ma il fatto è che abbiamo imparato così tanto con questo metodo che abbiamo ottenuto numeri che le persone non erano state in grado di ottenere.
- È davvero solo un metodo in più che non è peggio del semplice tagliare il cervello in piccoli pezzi “.
- Il metodo prevede la dissoluzione delle membrane cellulari delle cellule all’interno del cervello e la creazione di una miscela omogenea.
- Quindi si prende un campione della zuppa, conta il numero di nuclei cellulari appartenenti ai neuroni e poi si calcola il numero complessivo,
- Il vantaggio di questo metodo è che si supera il problema che diverse regioni del cervello possono avere neuroni più o meno densamente stipati.
“Abbiamo scoperto che in media il cervello umano ha 86 miliardi di neuroni. E nessuno dei cervelli che abbiamo esaminato finora ha i 100 miliardi.
- Anche se può sembrare una piccola differenza, i 14 miliardi di neuroni rappresentano più o meno il numero di o la metà del numero di neuroni di un gorilla.
- Quindi questa è una differenza piuttosto grande in realtà”.
- Questo porta alla domanda più profonda, ovvero cosa renda così speciale il cervello umano,
- Herculano-Houzel afferma che i nostri cervelli sono modelli di primati piuttosto standard, tranne per il fatto che abbiamo un numero enorme di cellule cerebrali rispetto ad altre specie.
Questo è energeticamente molto costoso da mantenere. Stima che dal 20% al 25% del nostro budget energetico totale sia usato per far funzionare il cervello, una cifra che descrive come ” straordinaria “.
- “Possiamo permetterci un numero così grande di neuroni.
- Questa differenza potrebbe essere effettivamente correlata al passaggio a una dieta alimentare cucinata e ciò ci consente di avere molte più calorie al giorno.
- E con ciò possiamo permetterci un numero molto maggiore di neuroni che altri animali probabilmente non potrebbero “.
- Questo è un riferimento alle idee del professor su come l’invenzione della cucina abbia avuto un impatto cruciale sull’evoluzione umana.
- C’è una bella, anche se leggermente macabra, eleganza nel metodo di Herculano-Houzel e il suo lavoro incarna l’atteggiamento costantemente interrogativo che è ciò che rende la scienza così potente.
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Quanti neuroni muoiono ogni giorno?
È l’oggetto più complesso e misterioso che si conosca: 1.300-1.500 grammi di tessuto gelatinoso, composto da 100 miliardi di cellule (i neuroni ) ognuna delle quali sviluppa in media 10 mila connessioni con le cellule vicine. In questo articolo, in sintesi, vi raccontiamo come si forma, come è organizzato, come si difende e come funziona il cervello,
tutto in otto mesi. Durante la vita fetale, l’organismo produce non meno di 250 mila neuroni al minuto. Ma 15-30 giorni prima della nascita, la produzione si blocca e per il cervello comincia una seconda fase che durerà per tutta la vita: la creazione di connessioni tra le cellule. In questo processo, le cellule che falliscono le connessioni vengono eliminate, tanto che al momento della nascita sono già dimezzate.
La moria diviene imponente dai 30-40 anni quando, senza che l’organismo le sostituisca (la rigenerazione di neuroni è stata realizzata solo in laboratorio), le cellule cerebrali cominciano a morire al ritmo di 100 mila al giorno, circa 1 al secondo. Per fortuna non c’è un corrispondente declino mentale: la capacità di creare nuove connessioni preserva infatti le facoltà mentali acquisite. È grigio. Falso. Diciamocelo chiaramente, il cervello “dal vivo” non è il massimo da vedere: immerso nella formaldeide dei laboratori, assume un aspetto grigiastro, tendente al giallo (non molto dissimile da questo corallo-cervello, chiamato così perché lo ricorda da vicino).
Ma finché è in vita, il cervello mostra anche altri colori: rosso-rosato, per la presenza dei vasi sanguigni che lo irrorano; bianco, per la cosiddetta sostanza bianca, che comprende i fasci di fibre nervose che connettono le centinaia di miliardi di neuroni presenti al suo interno; e nero, nella substantia nigra, una formazione neuronale di colore scuro implicata in alcune funzioni motorie.
C’è naturalmente anche il grigio della materia grigia, l’insieme dei corpi di neuroni: ma il nome serve più che altro a differenziarla dal colore chiaro della sostanza bianca. Ne usiamo soltanto il 10%. Falso. Il cervello è un organo dispendioso dal punto di vista energetico ed evolutivo: non avrebbe senso avere un tale surplus di cellule nervose inutilizzate. Il falso mito ha origine nelle dichiarazioni dello scrittore e psicologo americano William James, secondo il quale sfruttiamo solo una piccola parte delle nostre risorse mentali.
Le tecniche di imaging cerebrale lo hanno smentito, mostrando che gran parte del cervello è coinvolta anche durante le attività più semplici, come dormire. La percentuale ha senso solo se si pensa alla natura delle cellule del cervello, costituite per il 90% da cellule gliali, con la funzione di nutrimento, a supporto di un 10% di neuroni.
Foto: © JanVonHolleben/Splash/Splash News/Corbis Quello umano è il più grande. Non esattamente. Il cervello umano pesa in media 1360 grammi, più o meno quanto quello di un delfino (considerato peraltro un animale intelligente). Quello di un capodoglio – meno brillante dei delfini – arriva a 7800 grammi, quello di un orango ad appena 370 grammi.
Come si nota, non sono le dimensioni assolute del cervello a determinare l’intelligenza del suo “proprietario”; piuttosto, è il rapporto delle sue dimensioni con il resto del corpo. Per gli uomini, questa relazione è di circa 1:50. Per gli altri mammiferi, è in media 1:180, e negli uccelli è di 1:220.
Foto: © REUTERS/Ilya Naymushin Adv Sotto pressione lavora meglio. Falso. Vi sarà capitato di pensarlo dopo aver portato a termine con successo una scadenza che sembrava insormontabile. Ma il fatto di essere riusciti nell’impresa non significa aver svolto un lavoro di qualità. Lo stress è un pungolo efficace che spinge ad accelerare i tempi e a smettere di procrastinare.
Ma gli ormoni rilasciati nei momenti frenetici sono efficaci solo in brevi situazioni di emergenza: alla lunga, finiscono con l’interferire con l’abilità del cervello di assimilare conoscenza. Sotto pressione è più facile compiere errori di omissione e portare a termine il compito in modo sbrigativo.
Senza contare che le grandi idee arrivano quando la mente è lasciata libera di divagare, Foto: © REUTERS/Michaela Rehle Emisfero sinistro, ordine; destro, creatività. Non è proprio così. Il mito affonda le sue radici nelle prime osservazioni degli effetti di lesioni cerebrali effettuate nell”800, quando si scoprì che un danno in uno o nell’altro emisfero causava la perdita di specifiche abilità.
Ma studi successivi e le moderne tecniche di imaging cerebrale hanno dimostrato che emisfero sinistro e destro sono fortemente interconnessi, e che sia i compiti strategici, verbali e matematici, sia quelli creativi e relativi all’immaginazione implicano attività in tutto il cervello, non solo in una delle due parti.
Foto: © Visuals Unlimited/Corbis L’effetto Mozart funziona. Ascoltare un piacevole brano musicale fa aumentare il livello di dopamina (un neutrasmettitore che solleva il tono dell’umore) nel cervello, un fattore che molto probabilmente migliora le prestazioni cognitive. Ma questo non accade solo con la musica classica: funzionerebbe anche con Justin Bieber (se vi piace), o addentando una barretta di cioccolato. L’alcol brucia i neuroni. Non esattamente. Una sonora sbronza ha effetti evidenti sul modo di ragionare di chi ha bevuto. Ma non è corretto affermare che l’alcol “uccide” le cellule cerebrali. Piuttosto, può danneggiare le parti terminali del neurone, i dendriti, alterando la trasmissione del segnale nervoso (e con essa il modo in cui i neuroni comunicano).
Si tratta per lo più di un effetto transitorio. Ma i bevitori incalliti possono sviluppare la cosiddetta sindrome di Korsakoff, un deficit di memoria associato a una degenerazione neuronale. Essa non è dovuta direttamente all’alcol, ma alla carenza di tiamina, una vitamina il cui assorbimento è ostacolato dall’assunzione di alcol.
Foto: © Visuals Unlimited/Nature Picture Library/contrasto Se si lesiona è per sempre. Non è sempre così. Il termine “lesione cerebrale” fa subito pensare a forme di disabilità permanenti e a danni irreversibili, ma fortunatamente non è sempre così. Esistono danni cerebrali di minore entità, e per definizione transitori, come la commozione cerebrale, da cui il cervello di riprende in modo rapido.
Quest’ultima consiste in una perdita di coscienza di breve durata dovuta in genere a un trauma cranico e non porta a danni cerebrali permanenti. La plasticità cerebrale, cioè la capacità del cervello di costruire nuove sinapsi e trovare nuovi percorsi per compiere determinate azioni, laddove i vecchi siano stati compromessi, consente spesso un parziale recupero anche da lesioni cerebrali più serie, ma localizzate.
Favorire lo sviluppo di queste nuove strategie cognitive è il compito della riabilitazione neuropsicologica. Foto: © REUTERS/Sergio Perez Dopo i 40 è tutto un declino. Per fortuna, no. Alcune facoltà cognitive peggiorano con l’avanzare dell’età, è vero, ma altre vanno incontro a un deciso miglioramento. Da giovani sarà più facile apprendere le lingue, svolgere più compiti contemporaneamente, tenere a mente un numero di telefono appena dettato o concentrarsi solo sugli stimoli davvero utili in un contesto distraente.
Con l’età, però (in condizioni di invecchiamento normale, e non patologico) arrivano un significativo miglioramento delle funzioni linguistiche – dato dall’esperienza – una migliore abilità nell’appianare i conflitti sociali e nel giudicare le persone, oltre alla capacità di regolare con più facilità le proprie emozioni.
Foto: © John Lund/Blend Images/Corbis Adv Ogni area ha un compito preciso. Non proprio. Se è vero che il cervello è organizzato in modo standard, con certe aree specializzate in particolari compiti e connesse ad altre in base a pattern conosciuti, è però anche un organo eccezionalmente plastico, e non è corretto localizzare un determinato compito esclusivamente in una limitata porzione di esso.
Imparare una nuova disciplina, come per esempio suonare uno strumento, modellerà e cambierà le connessioni in alcune aree deputate al controllo motorio. Allo stesso modo, nei non vedenti, le aree normalmente deputate alla percezione visiva saranno dedicate, per esempio, all’ascolto. Inoltre, come abbiamo già ricordato, il cervello è più interconnesso di quanto si sia abituati a pensare, e le sue aree lavorano quasi sempre in stretta collaborazione.
Foto: © HAMILTON/REA/contrasto La memoria si può allenare. No, i giochi di enigmistica non vi renderanno più abili nel ricordare (né tantomeno più intelligenti). La memoria non è un muscolo che si possa potenziare con esercizi ripetuti: vale a dire, un generico training scollegato da precisi contenuti non migliorerà le vostre performance cognitive generali.
- Diverso è il discorso per chi deve affrontare un compito specifico (per esempio un esame, o un discorso pubblico).
- In quel caso, il tempo speso ad allenarsi sarà direttamente proporzionale ai risultati finali.
- Naturalmente, mantenere uno stile di vita attivo, curioso e interessato agli stimoli esterni (lettura dei giornali, mostre, viaggi, incontri con gli amici) servirà comunque da fattore protettivo contro il declino cognitivo, soprattutto in età avanzata.
Foto: © Ben Hupfer/Corbis La memoria è un registratore fedele. Ci piacerebbe fosse vero, ma non è così: la nostra capacità di ricordare non è infallibile, ma soggetta a fattori che possono causare distorsioni, dubbi, riscritture e veri e propri “vuoti”. Tra questi troviamo interferenze successive o precedenti il ricordo in questione, che vanno a sovrapporsi alla traccia, deformandola; ma anche le emozioni associate a quel determinato momento, o il contesto in cui un ricordo viene revocato.
Chi è l’animale più intelligente dopo l’uomo?
Orangotanghi – L’orangotango è considerato l’animale più intelligente della Terra, dopo l’essere umano (si contende il titolo con lo scimpanzé). Gli oranghi sono particolarmente intelligenti: possono capire e “bilanciare” i costi e i benefici durante uno scambio di merci, hanno una forte cultura, un sistema di comunicazione tutto loro e utilizzano molti strumenti. In uno studio, inoltre, gli oranghi adulti si sono comportati meglio dei bambini nella creazione e nell’uso di strumenti. Queste grandi scimmie vivono in comunità e formano forti legami sociali, molto probabilmente la chiave della loro intelligenza, e le femmine badano ai piccoli per molti anni insegnando loro tutto ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere nella foresta.
Qual è la razza umana più intelligente?
Classifica popoli più intelligenti al mondo: dov’è l’Italia? Vorresti sapere quali sono i popoli più intelligenti al mondo, Non è facile determinare chi è il più intelligente e molto dipende da quali fattori vengono presi in considerazione. Si potrebbe, per esempio, decidere di individuare come fattore di «intelligenza» la vittoria ai premi Nobel in un determinato Paese o il numero di scoperte scientifiche.
- In linea di massima, però, quando si cerca di fare una classifica dei popoli più intelligenti si fa riferimento al quoziente intellettivo (QI) delle persone che risiedono in un luogo, piuttosto che valutare altri risultati.
- Sulla base dell’ Intelligence Capital Index (ICI) è stata stilata la classifica dei Paesi più intelligenti al mondo,
Certamente la classifica non sarà univoca, dato che i fattori che si possono tenere in considerazione sono molteplici, ma sulla base di questo studio è possibile trarre alcune conclusioni. Ecco la classifica dei popoli più intelligenti al mondo e la posizione dell’Italia rispetto alle altre nazioni europee.
Lo studio al quale faremo riferimento per stilare la classifica dei popoli con il quoziente intellettivo più alto al mondo è stato realizzato dal professor Richard Lynn tra il 2002 e il 2006. L’autore ha misurato il QI dei cittadini di 80 nazioni, tenendo in considerazione una serie di fattori che avrebbero determinato il primato di una nazione rispetto alle altre.
Secondo questo studio, quindi, i due popoli che hanno presentato il QI più alto (108) sono stati Hong Kong e Singapore, che occupano appunto il primo posto in classifica, Segue, a due punti di distanza, la Corea del Sud, mentre più in basso di trovano Giappone, Cina, Taiwan e l’ Italia,
Hong Kong (108) Singapore (108) Corea del Sud (106) Cina (105) Giappone (105) Taiwan (104) Italia (102) Svizzera (101) Mongolia (101) Islanda (101)
Ma il quoziente intellettivo non è l’unico fattore da tenere in considerazione nel momento in cui si cercano di individuare i Paesi più intelligenti al mondo.
Che intelligenza ha il cane?
Il fatto che il nostro Fido sia intelligente è ormai ben assodato, ma spesso ci chiediamo cosa accada nella sua mente, come sia in grado di elaborare esperienze, emozioni, attimi. La psicologia canina ci dà, a questo proposito alcune risposte molto interessanti.
La prima rappresenta quello che un cane è in grado di fare dalla nascita, grazie al suo “istinto”, La seconda indica ciò che una cane impara a fare da solo, attraverso le varie esperienze vissute (es.risoluzione dei problemi). La terza comprende ciò che l’animale può imparare dai suoi simili o dagli umani, attraverso l’educazione e l’apprendimento, La quarta racchiude l’insieme delle capacità di un cane di orientarsi nello spazio.
Fido è in gardo di contare (al massimo fino a 4-5 ) ed è in grado di appendere circa 160 vocaboli, Riesce a risolvere semplici problemi, trovando stratagemmi adeguati. La sua mente è in grado di viaggiare lontano, proprio come la nostra. E’proprio così: mentre ronfa sul divano o nella sua calda cuccia,Fido, sogna di correre spensierato sul prato, di incontrare gli amici al parco o magari di giocare insieme a noi. Associati a questi viaggi della mente, spesso vi sono segnali sonori o persino movimenti, A volte si tratta di movimenti delle zampe, mentre, nel caso dei cuccioli, spesso di movimenti legati alla suzione del latte. Il nostro cane prova emozioni, proprio come noi: può sentirsi felice, impaurito, triste,
Comprende i nostri richiami: quando lo rimproveriamo spesso, in silenzio, si nasconde, proprio come farebbe un bimbo. Fido non solo capisce il suo nome, ma è addirittura in grado di distinguere il tono di voce con il quale lo stiamo pronunciando: un tono felice lo rende giocoso, mentre un tono arrabbiato lo spaventa.
Se percepisce, nelle nostre parole, la paura, spesso interviene (a modo suo) per aiutarci. I nostri toni addolorati possono invece portarlo ad un atteggiamento di conforto. Sì, anche il cane può provare empatia, Cos’è l’empatia? E’ la capacità di mettersi nei “panni emozionali” di un altri individuo, cogliendo il suo stato d’animo.
Non è solo un’impressione dei proprietari o una forzata tendenza ad umanizzare il cane, ma è dimostrata dalla scienza (studio svolto dalla university of London Goldsmiths College) che i vostri amici a quattro zampe sono ipersensibili alle emozioni umane, Comprendono la tristezza del proprio amico umano e offrono per istinto conforto e vicinanza.
E’ stato ipotizzato poi, che l’empatia del proprietario, possa essere correlata con la reattività emozionale critica. Il cane riesce a sfruttare i propri strumenti comunicativi : sa bene che piangendo, ad esempio, attirerà l’attenzione dei padroni e sfrutta quetsa consapevolezza, quando necessario.
Ciò che passa per la mente del nostro cane spesso traspare dai suoi segnali di comunicazione. Il più potente strumento che Fido possiede per comunicare è la coda, Se la osserviamo accuratamente, possiamo leggere i suoi stati d’animo: una coda che scodinzola però, contrariamente a quanto si pensa, non è sempre sintomo di gioia.
La coda, mossa secondo tempi e velocità diverse può indicare felicità, ansia, paura o addirittura aggressività. La mente del cane è in gardo di apprendere, anche da altri cani: un cane anziano ben equilibrato e socializzato, potrebbe essere di grande aiuto per educare un cucciolo.
- A volte torniamo a casa e troviamo i guai che Fido ha combinato in nostra assenza e pensiamo quasi che lui si sia voluto vendicare del fatto che l’abbiamo lasciato solo a lungoInvece la scienza sostiene che Fido non sia in grado di premeditare un atto, come quello vendicativo.
- Spesso lo sgridiamo e siamo convinti che poi lui se ne stia in disparte perchè si sente in colpa, ma nemmeno il senso di colpa gli appartiene! Se percepisce emozioni negative, semplicemente si rattrista, un pò come noi.
Sicuramente la mente di Fido è un mondo labirintico, simile ad un bosco incantato, in cui intelligenza ed emozioni si intrecciano tra loro, quindi ci aspettano di certo molte altre sorprese, alla scoperta del nostro miglior amico peloso.
Chi è l’animale che ha più memoria?
Una memoria da elefante: ecco quali animali ricordano di più Tutti abbiamo sentito, almeno una volta, il famoso detto ” avere una memoria de elefante “. Ma perché si dice che questi grossi animali abbiano una grande memoria? Gli esperti hanno a lungo studiato questa interessante caratteristica negli elefanti e sono convinti che si sia sviluppata per ragioni evolutive legate alla sopravvivenza della specie.
- Secondo le ricerche condotte fino ad ora, i pachidermi hanno necessità di ricordare molte informazioni per scegliere i luoghi migliori dove migrare ed evitare le gravi siccità,
- Sono le femmine più anziane a guidare i gruppi durante la migrazione, avendo cura di scegliere i luoghi più sicuri e meno soggetti alla siccità, e questo è possibile grazie alle loro grandi capacità mnemoniche,
( ) Tuttavia, gli elefanti non sono gli unici animali in grado di ricordare informazioni per tanto tempo. Pare che i delfini tursiopi (anche detti delfini dal naso a bottiglia) siano, infatti, gli animali con la miglior memoria al mondo, Recenti studi hanno evidenziato che questi mammiferi sono in grado di ricordare il fischio di altri delfini con cui hanno vissuto anche dopo vent’anni dalla separazione,
- Ogni delfino ha un fischio differente, come fosse un nome, che serve per farsi riconoscere dai suoi simili e stringere legami tra di loro.
- Non esiste ancora una risposta certa sul perché i delfini non in cattività, che vivono mediamente una ventina di anni, abbiano bisogno di una tale memoria.
- La risposta potrebbe essere legata all’importanza che i legami sociali hanno per questi mammiferi; i gruppi di delfini spesso si separano e si ritrovano dopo molti anni e la memoria potrebbe essere un modo per riconoscersi e formare nuovamente il proprio gruppo.
() Anche gli scimpanzè sono animali dotati di una grande memoria, ma in questo caso a breve termine. Un ricercatore giapponese ha condotto uno studio su questi animali e il risultato è stato sorprendente: lo scimpanzè Ayumu è riuscito a ricordare perfettamente una sequenza randomica di numeri (da 1 a 9) che gli è stata mostrata su uno schermo.
- Secondo Testuro Matsuzaka, il ricercatore dell’università di Kyoto che ha condotto lo studio, questo tipo di memoria aiuta gli scimpanzè a sopravvivere,
- Infatti, nel loro ambiente naturale, questi animali spesso devono prendere decisioni rapide e complesse.
- La memoria a breve termine (working memory) aiuta il loro cervello a destreggiarsi tra vari pensieri simultaneamente, come spostarsi tra gli alberi per cibarsi e, nel frattempo, evitare pericoli imminenti.
() Per un aiuto in più a memoria e concentrazione è possibile anche ricorrere a integratori alimentari, Ad esempio, integratore alimentare con fosfoserina, centella asiatica che contribuisce a favorire il mantenimento di memoria e funzioni cognitive, caffeina che aiuta a mantenere concentrazione e attenzione, e magnesio e vitamina B5 utili per ridurre la stanchezza.
- Questo articolo non contiene alcuna raccomandazione di carattere medico, o suggerimento all’assunzione.
- Ricorda che il tuo medico curante è il riferimento a cui rivolgerti per trovare la soluzione più adatta per te.
- Gli integratori non vanno intesi come sostituti di una dieta variata e di uno stile di vita sano.
SAIT.CHC.17.11.0792 : Una memoria da elefante: ecco quali animali ricordano di più
Quanta memoria ha un cane?
Non dobbiamo mai sottovalutare la memoria dei cani – I cani sono al dire il vero un po’ distratti, perché hanno una memoria a breve termine di episodi poco rilevanti della durata di soli 5-10 minuti. Per esempio possono dimenticarsi quasi subito il posto nel quale hanno lasciato l’ultima volta il loro giochino preferito, oppure che hanno fatto pipi sul tappeto.
Eppure, se quand’erano allo stato selvatico si fossero facilmente dimenticati delle zone migliori per la caccia, o dove erano dislocate le loro tane, si sarebbero estinti ancora prima di incontrare l’uomo. La spiegazione è che la memoria a lungo termine funziona molto bene per le esperienze considerate importanti, sia positive che negative.
Per esempio ricordano le voci del loro padrone riconoscendo la persona amata addirittura in immagini fotografiche abbastanza grandi. È stato anche dimostrato che la memoria migliora ulteriormente se il cane può usare associazioni mentali, ovvero se sente la voce del padrone la associa al suo volto, velocemente la sua fotografia tra quelle d’individui diversi, in modo molto simile a quando noi, ascoltando una voce famigliare, pensiamo subito alla persona cui appartiene.
Che memoria hanno i cani?
I cani hanno la capacità di ricordare azioni complesse anche se non hanno una particolare importanza nel momento in cui si verificano. Hanno, cioè, qualcosa di molto simile alla memoria episodica degli esseri umani, che conserva i ricordi in prima persona delle esperienze di vita.
Qual è il QI di Albert Einstein?
Geni si nasce o si diventa? Il nostro genio è per l’1% talento, per il 99% duro lavoro, parola di Einstein – Lifestyle “Un uomo dotato di genio non fa errori, poiché sono voluti da lui stesso per aprire le porte della scoperta”: con queste parole James Joyce definisce il concetto di genio che a maggio vede la sua massima espressione con la nascita di personaggi storici che hanno cambiato per sempre il destino dell’umanità e le sorti del mondo attraverso le scoperte e pensiero.
La tematica del genius risulta di interesse mondiale perché coinvolge tutto il globo grazie ad approfondimenti, analisi, studi e persino classifiche. A proposito di graduatorie, World Population Review elenca i paesi più smart del 2021, partendo dalla prima in classifica, ovvero Singapore con un Q.I.
medio della popolazione pari a 108. Al secondo posto si piazza Hong Kong con un quoziente intellettivo medio pari a quello del primo classificato, ma appartenente ad una popolazione più grande di ben 2 milioni rispetto a Singapore stesso. Chiude il podio la Corea del Sud con un quoziente pari a 106.
Buone notizie per l’Italia che, a livello globale, si classifica settima (1° in Europa) con un QI medio pari a 102, davanti a UK (100), Germania (99), Francia e USA (98). Dalle nazioni ai singoli geni, anzi al genio di Albert Einstein che l’11 maggio 1916, ben 105 anni fa, anche grazie al suo Q.I. di 160, enunciò la teoria della relatività.
Se celeberrime sono le sue scoperte in ambito scientifico, un aspetto meno noto riguarda la capacità di aver costruito la sua genialità nel corso degli anni: nonostante lo scetticismo degli insegnanti e la bocciatura all’esame del Politecnico di Zurigo, lo scienziato, grazie al costante lavoro e alla curiosità innata, elevò le proprie conoscenze e riuscì ad effettuare scoperte straordinarie.
“Il nostro genio è per l’1% talento e per il 99% duro lavoro”, con queste parole Einstein definisce il concetto di genius, una tematica, le cui basi fondanti sono state confermate ed ulteriormente approfondite, durante l’evento TEDx Trento, da Massimo De Donno, fondatore di GenioNet e ideatore di Genio in 21 Giorni, il corso di formazione sul metodo di studio personalizzato, distribuito in oltre 50 sedi tra Italia, Spagna, Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti.
“Stando a diversi studi elaborati e diffusi negli ultimi anni, si è giunti alla conclusione che il genio non è un dono della natura insieme al quale veniamo al mondo, bensì la combinazione di abilità, istruzione, formazione di alto livello e una montagna di lavoro ed esercizio – afferma Massimo De Donno – Più cresciamo e ci allontaniamo dall’infanzia, meno importante sarà l’impatto della genetica sul nostro quoziente intellettivo e sui nostri risultati.
- Perciò, gli elementi che accrescono il nostro genio sono le modalità con cui spendiamo la nostra vita, l’atteggiamento, i comportamenti che adottiamo, le abitudini create e, infine, i nostri focus giornalieri”.
- Curiosamente maggio è il mese dei geni, non è solo il mese in cui celebrare Einstein e la sua teoria della relatività: Mark Zuckerberg (14 maggio 1984, 37 anni) che viene definito da Popular Science come individuo dotato di un “genio indistruttibile”: il creatore di Facebook, a cui è stato dedicato anche il film “The Socialnetwork”, è riuscito a costruire in soli 17 anni un impero di quasi 2 miliardi di follower.
Passando al cinema, Mike Colter, attore tra i tanti di “Million Dollar Baby”, parla, durante un’intervista rilasciata a Ora TV, del genio del regista Clint Eastwood (31 maggio 1930, 90 anni), concentrandosi, in particolar modo, sulla fiducia e sulla capacità del noto regista di rendere ogni attività più “comfortable” del previsto.
E ancora, in ambito musicale, la rivista americana Rolling Stone presenta Bob Dylan (80 anni il 24 maggio) come “un genio letterario” in grado di “scrivere non soltanto musica e poesia, ma anche storia” e ciò viene certificato anche dalla vittoria del Premio Nobel per la Letteratura nel 2016. The ArtDesk, invece, si concentra sulla figura di Sigmund Freud (6 maggio 1856), “un genio del mondo moderno, riconosciuto per la sua precoce e feroce intelligenza”.
Per concludere, non poteva mancare la letteratura e, soprattutto, non potevano mancare due “over the top geniuses” come Dante Alighieri e Nicolò Machiavelli, Il primo viene analizzato, in particolar modo, in relazione al suo capolavoro, ovvero la “Divina Commedia”, realizzata e scritta attraverso un linguaggio complicato, difficile da tradurre persino in inglese e ciò sarebbe frutto del “genio supremo dello stesso Dante”.
L’Irish Times, invece, si preoccupa della figura di Machiavelli, definendo il suo “Principe” affascinante e frutto di una mente geniale. A proposito di mente geniale, interviene nuovamente Massimo De Donno che identifica i tre pilastri o elementi fondamentali per lo sviluppo, la crescita dell’intelligenza e della genialità.
“Il primo elemento da tenere in considerazione quando si parla di genialità è sicuramente il nostro atteggiamento, ovvero l’insieme di convinzioni che ci possono spingere a migliorare ulteriormente le nostre caratteristiche. Il secondo pilastro è costituito da un insieme di tecniche ed esercizi, ovvero dai «fondamentali dell’apprendimento», così analizzati e definiti da Massimo Arattano, primo ricercato del Consiglio Nazionale delle ricerche di Torino.
Il terzo ed ultimo pilastro è la personalizzazione del metodo: ciò su cui si focalizza la mia ricerca e il lavoro di un team di formatori esperti, è la possibilità di fornire una «cassetta degli attrezzi», ovvero un insieme di input che possono aiutare a sconfiggere i propri mostri e ad abbattere le barriere che possono limitarne l’apprendimento.
In quanto esseri umani siamo nati per apprendere e alla domanda «geni si nasce o si diventa?» non c’è una risposta, bensì una scelta, la nostra scelta di migliorare e crescere giorno dopo giorno”, conclude De Donno.
Ecco, infine, la top 10 degli “smart countries” del 2021 secondo World Population Review:1) Hong Kong: 1082) Singapore: 1083) Corea del Sud: 1064) Cina: 1055) Giappone: 1056) Taiwan: 1047) Italia: 1028) Svizzera: 1019) Mongolia: 10110) Islanda: 101
: Geni si nasce o si diventa? Il nostro genio è per l’1% talento, per il 99% duro lavoro, parola di Einstein – Lifestyle
Quanto QI ha l’Italia?
Italia tra i Paesi più intelligenti al mondo nel 2021 om, l’Italia avrebbe un QI medio pari a 102, che le vale il settimo posto in classifica tra i Paesi più intelligenti al Mondo e primo in Europa.
Qual è il QI di una persona?
Calcolo del quoziente intellettivo: i punteggi – Quali sono le fasce di punteggio da tenere in considerazione? Secondo il modello Wechsler sono le seguenti:
130 – punteggio molto superiore alla media che identifica una persona particolarmente dotata dal punto di vista intellettivo 120-130 – quoziente intellettivo alto 110-115 – quoziente intellettivo medio-alto 110-90 – quoziente intellettivo nella media 90-80 – quoziente intellettivo medio-basso 70-80 – quoziente intellettivo basso 70-55 – disabilità intellettiva lieve 50/55-35/40 – disabilità intellettiva moderata 35/40-20/25 – disabilità intellettiva grave inferiore a 20-25 – disabilità intellettiva profonda
Secondo dei calcoli statistici sui risultati dei test, 1 persona su 2 ha un QI pari a 100, considerato il punteggio standard. Da 100 in poi si parla di deviazioni dalla media, che vengono calcolate di 15 punti in 15 punti. Ovviamente, più il QI aumenta e più diminuisce la percentuale di persone in grado di raggiungere quel determinato punteggio.
Chi ha più neuroni?
Che tipo di differenze strutturali ci sono nei due cervelli? – “In generale gli uomini hanno più neuroni (materia grigia), le donne hanno maggiori connessioni (materia bianca)”, aggiunge la dottoressa. Anche il peso dell’organo racchiuso nella scatola cranica cambia fra maschi e femmine: quello maschile è maggiore (1350 kg contro 1200 kg nelle donne, all’incirca).
Quanti neuroni si bruciano con l’alcol?
EFFETTI DELL’ALCOL – Effetti Diretti a Breve Termine Lalcol viene in parte assorbito dallo stomaco ed in parte dallintestino e, se lo stomaco vuoto, lassorbimento pi rapido. Lalcol assimilato, attraverso il sangue, passa al fegato, che ha il compito di distruggerlo. Finch il fegato non ha completato la digestione per letanolo continua a circolare diffondendosi nei vari organi.
Lalcol, una tra le sostanze pi tossiche, pu facilmente oltrepassare le membrane cellulari e provocare lesioni, fino alla distruzione delle cellule. Nello stato di ubriachezza lalcol nel sangue raggiunge tutti gli organi, cervello compreso, uccidendo migliaia di neuroni, e il danno cerebrale irreversibile.
Con unubriacatura si perdono circa 100.000 neuroni, tanti quanti quelli di una giornata di vita. Lalcol provoca una iniziale euforia e perdita dei freni inibitori, ma a quantit progressivamente crescenti corrispondono effetti come riduzione della visione laterale (visione a tunnel), perdita di equilibrio, difficolt motorie, nausea e confusione.
- Quantit eccessive di alcol possono portare fino al coma e alla morte.
- La velocit con cui il fegato riesce a rimuovere lalcol dal sangue varia da individuo ad individuo; in media, per smaltire un bicchiere di una qualsiasi bevanda alcolica lorganismo impiega 2 ore.
- Se si beve molto alcol in poco tempo lo smaltimento pi lungo e difficile, e gli effetti pi gravi.
Effetti Diretti a Lungo Termine Lutilizzo prolungato di alcol nel tempo pu aumentare il rischio di sviluppare varie patologie pi o meno gravi, e anche a basse dosi lalcol accresce il rischio per alcune malattie. Secondo dati forniti dallOMS, il consumo di 20 grammi di alcol al giorno (pari a circa 2 bicchieri di vino) determina un aumento percentuale di rischio: del 100% per la cirrosi epatica; del 20-30% per i tumori del cavo orale, faringe e laringe; del 10% per i tumori dellesofago; del 14% per i tumori del fegato; del 10-20% per i tumori della mammella; del 20% per lictus cerebrale.
Lalcol la causa di circa la met degli 8.000 decessi conseguenti ad incidenti stradali, che rappresentano la prima causa di morte per gli uomini al di sotto dei 40 anni. La guida sotto stato di ebbrezza ha causato, nel 2005, ben 4.107 incidenti stradali e le infrazioni accertate dalla Polizia Stradale nel 2006 per guida sotto linfluenza di alcol sono state 24.803. Tra i guidatori in stato psico-fisico alterato, chi sotto leffetto di alcol rappresenta il 70.2%. Labuso di alcol la causa della crescente mortalit giovanile per incidente stradale, per pi del 40% dei casi, e del 46% dei morti di et compresa fra i 15-24 anni. Secondo dati forniti dallOMS, ogni anno nella Regione Europea circa 73 mila morti e pi di 2 milioni di ricoveri o visite ospedaliere, sono dovuti ad atti di violenza interpersonale. Lalcol appare come fattore determinante almeno nel 40% dei casi. Negli Stati Uniti, le statistiche indicano come l86% dei casi di omicidio, il 37% delle aggressioni e il 60% delle violenze sessuali avvengono sotto leffetto dellalcol. Il rapporto tra uso di alcol e violenza dovuto agli effetti di disinibizione, alterazione dei meccanismi di elaborazione delle informazioni, riduzione dellattenzione. Ma, sempre a causa di questa alterazioni, lassunzione di alcol aumenta anche il rischio di subire atti di violenza, perch incapaci di interpretare correttamente le situazioni. Il 6.8% di tutte le disabilit che vengono registrate in un anno attribuibile allalcol e complessivamente il 10% dei ricoveri legato allabuso di alcol. Ogni anno in Italia circa 40.000 individui muoiono a causa dellalcol per cirrosi epatica, tumori, infarto emorragico, suicidi, aborti, omicidi, incidenti in ambiente lavorativo, domestico e incidenti stradali.
fondamentale evitare lassunzione concomitante di farmaci che agiscono sul Sistema Nervoso Centrale (per esempio ansiolitici e antidepressivi).
Quanti neuroni ha una scimmia?
Brillanti teste d’uovo Sugli animal i e i loro cervelli circolano molte voci infondate. Il cervello umano, si dice, contiene 100 miliardi di neuroni. Ma da dove salta fuori questo numero? Una decina d’anni fa una giovane neuroscienziata brasiliana, Susana Herculano-Houzel, si era posta questa domanda.
Dopo aver lungamente interrogato molti colleghi, anche più anziani ed esperti, si era resa conto che non esistevano in letteratura dati davvero convincenti sull’argomento. I libri di testo spesso menzionavano il numero magico di 100 miliardi, senza però fornire un preciso riferimento bibliografico. Insomma, la valutazione di cento miliardi sembrava più una diceria che un fatto acquisito.
C’era però una ragione per questo. Le stime sul numero di neuroni contenuti in un cervello si basavano su procedure cosiddette stereologiche, in cui si contano, guardandoli al microscopio, i neuroni su un certo numero di sottili fettine, tagliate in posizioni diverse, dalle quali poi si desumono per estrapolazione i valori complessivi.
Il problema è che fettine ottenute in porzioni diverse del cervello non mostrano la stessa densità di neuroni. Susana Herculano-Houzel ha inventato però un nuovo metodo, semplice e bellissimo. In pratica, lei fa sciogliere le membrane delle cellule lasciando i soli nuclei sospesi in una specie di zuppa omogenea (più tecnicamente, isotropica, cioè eguale in tutte le direzioni).
Poiché ogni cellula nel cervello contiene un solo nucleo, contare i nuclei equivale a contare le cellule. I nuclei dei neuroni e delle altre cellule del cervello (la glia) possono essere distinti tra loro nella zuppa con dei metodi che consentono di colorarli diversamente.
Così facendo Suzana Herculano-Houzel ha potuto contare che i neuroni del cervello umano sono circa ottantasei miliardi. Quattordici miliardi in meno di quel che si pensava. Il metodo consente di misurare anche quanti neuroni ci sono nei cervelli delle altre specie, e qui sono venute nuove sorprese. L’intuizione ci indurrebbe a credere che a cervelli piccoli corrispondano meno neuroni, perché c’è meno spazio per contenerli.
Uno studio appena pubblicato ha però rivelato che la densità dei neuroni nei piccoli cervelli degli uccelli è paragonabile o più spesso addirittura superiore a quella dei primati. La questione della densità dei neuroni è importante. Non sorprende che un animale più grande abbia anche un cervello più grande (come minimo, gli servono più neuroni per portare a spasso un corpo di maggiori dimensioni).
- Ma prendiamo il caso, per capirci, di due specie, una di mammifero e una di uccello, i cui cervelli abbiano lo stesso peso.
- Per esempio quello di una scimmia come un galagone e quello di un cacatua ciuffogiallo.
- Il peso del cervello è di circa 10 grammi per ambedue le specie.
- Però il cervello del primate possiede circa 936 milioni di neuroni mentre quello del pappagallo ben 2122 milioni.
Oppure, ancor più impressionante, prendiamo un ratto e uno storno: 1.80 grammi di peso il loro cervello, quello del ratto però contiene solo 200 milioni di neuroni, quello dello storno più del doppio, 483 milioni di neuroni. In media, pappagalli e corvidi hanno circa il doppio dei neuroni delle scimmie di simile peso, e questa concentrazione elevata si osserva in special modo nel pallio, la regione dorsale, più esterna, del cervello, che nei mammiferi prende il nome di corteccia.
- Per esempio una scimmia cappuccina ha un cervello che è quasi quattro volte più grande di quello di un corvo comune (il primo pesa 39.18 grammi il secondo circa 10.2 grammi).
- Ma il corvo ha 1204 milioni di neuroni nel pallio, la scimmia cappuccina ne ha 1140 milioni nella corteccia.
- Un macaco ha in media un cervello che pesa cinque volte il cervello di un’ara gialloblu (69.83 grammi contro 14.38 grammi), e tuttavia ha solo 1710 milioni di neuroni nella corteccia contro i 1914 dell’ara.
Persino le specie di uccelli che sono più simili alle specie ancestrali, come il pollo di giungla (l’antenato del pollo domestico) o il colombo, che pure non brillano, in termini assoluti, nel confronto con i loro cugini pappagalli o corvidi, hanno comunque una densità di neuroni nel pallio paragonabile a quella delle scimmie.
Insomma, come affermano gli autori dell’ articolo, «il cervello degli uccelli ha la potenzialità di fornire un “potere cognitivo” per unità di massa molto più elevato di quanto sia possibile al cervello dei mammiferi». Appare evidente da queste considerazioni quanto sia azzardato dedurre alcunché dalle sole dimensioni del cervello.
Nel corso degli anni, si è cercato in vari modi di legare la superiorità cognitiva umana alle dimensioni dell’encefalo. Le dimensioni assolute ovviamente non vanno bene (le balene, ad esempio, hanno cervelli molto più grandi dei nostri). Ma anche le dimensioni relative non sono soddisfacenti, come, ad esempio, il rapporto tra peso del cervello e massa del corpo, oppure il quoziente di encefalizzazione, che misura il rapporto tra dimensioni del cervello e grandezza del corpo di un animale in relazione ad altri animali di simile grandezza.
- Il numero di neuroni può infatti variare in maniera differente nei diversi cervelli animali con il variare della loro grandezza.
- Nei primati, i neuroni aumentano con lo stesso tasso con cui si accrescono i cervelli.
- Se prendiamo un grammo di cervello da una scimmia piccola e un grammo da una scimmia grande, troveremo all’interno lo stesso numero di neuroni.
Nei roditori, invece, la grandezza dei cervelli aumenta più di quanto aumenti il numero di neuroni. Se prendiamo un grammo di cervello in un roditore più grande troveremo che contiene meno neuroni di un grammo di cervello di un roditore più piccolo. Da questo punto di vista, sostiene Suzana Herculano-Houzel, il cervello umano non è speciale: possiede esattamente il numero di neuroni che ci aspetteremmo di trovare in un primate con il cervello della sua stazza e, se potessimo aumentare le dimensioni del cervello di uno scimpanzé per fargli raggiungere le dimensioni del nostro cervello, osserveremmo che avrebbe grossomodo il valore atteso di 86 miliardi di neuroni.
- Le dimensioni del cervello non sono probabilmente l’unica ragione per cui si è diffuso lo stereotipo della scarsa intelligenza degli uccelli.
- Contribuisce anche una malintesa concezione dell’evoluzione.
- L’idea, cioè, di un ordinamento temporale del tipo pesci- anfibi-rettili- uccelli-mammiferi che si rifletterebbe in una parallela scala lineare dell’intelligenza.
Come dire: ultimi arrivati sulla scena, meglio serviti in termini di dotazione neuro-cognitiva. Ma gli organismi che vivono oggi sul pianeta non sono eguali alle specie ancestrali da cui sono derivati, si sono evoluti anch’essi: il pesciolino che vediamo nuotare nello stagno non è la medesima creatura che ad un certo punto ha dato l’abbrivio, come si racconta nei documentari, al famoso «passaggio della vita sulla terra», ma un suo tardo discendente.
E non è vero che gli uccelli siano comparsi prima dei mammiferi: i primi mammiferi sono comparsi attorno a 230 milioni di anni fa, gli uccelli un po’ dopo, 160 milioni di anni fa. I risultati di Herculano-Houzel e collaboratori mostrano come sia necessario ragionare sui cervelli nei termini delle pressioni selettive che ne hanno determinato l’evoluzione e lo sviluppo.
La funzione del volo ha imposto agli uccelli di minimizzare il loro peso, incluso quello del cervello. Ma come possono con cervelli così piccoli avere così tanti neuroni? Quasi certamente i neuroni degli uccelli sono più piccoli e sono impacchettati più densamente.
L’architettura che ne risulta è per certi versi peculiare, perché le cellule nervose hanno bisogno di un sistema per connettersi tra loro, che è fornito da dendriti e assoni. Per garantire connessioni a lungo raggio tra i neuroni è necessario che questi siano abbastanza grossi. Le connessioni a lungo raggio sono tipiche della corteccia dei mammiferi, che è organizzata a strati, come un sandwich.
Con neuroni piccoli, invece, risulta favorita la connettività locale su quella a lunga distanza: il cervello degli uccelli assomiglia ad una pizza piuttosto che a un sandwich, è fatto di nuclei nei quali i neuroni sono addensati e fortemente interconnessi.
- Un numero relativamente limitato di neuroni più grandi supporta invece connessioni a lungo raggio.
- Si tratta di un tipo di connettività che è stata studiata dai matematici nella cosiddetta teoria dei grafi, ma che ci è familiare perché caratterizza reti sociali come per esempio Internet.
- Queste reti, dette small world, sono composte da agglomerati di nodi fortemente connessi tra di loro, ma collegati con altri agglomerati tramite legami più deboli, secondo una distribuzione che obbedisce a una legge potenza.
Le reti small world si ritrovano in ambito sociale, biologico e tecnologico, e sono caratterizzate da un’elevata capacità di diffondere i segnali in modo veloce ed efficiente avendo pochi gradi di separazione tra i nodi (ricorderete la famosa ipotesi secondo cui ogni persona può essere collegata a qualunque altra attraverso una rete di conoscenze e relazioni con non più di cinque intermediari).
Forse le proprietà di queste reti sono alla base delle sofisticate capacità di elaborazione delle informazioni di uccelli come i pappagalli e i corvi. D’altro canto rimane da capire quali specifici benefici (e costi) siano associati a un’organizzazione laminata o a nuclei del tessuto nervoso. La lezione più importante che ci viene da questi studi è che ci sono modi diversi (sebbene certamente non infiniti) di costruire cervelli efficienti; il modello mammifero non rappresenta il vertice della creazione, solo una delle possibili soluzioni.
Olkowicz et al, Birds have primate-like numbers of neurons in the forebrain, Proceedings of the National Academy of Sciences USA, published online June 13, 2016; doi: 10.1073/pnas.1517131113 © Riproduzione riservata Argomenti: : Brillanti teste d’uovo
Chi vince tra il cane e il gatto?
Vincitore: cane. Trattabilità. Secondo i ricercatori è molto complesso capire le abilità dei gatti perché è difficile avere la possibilità di insegnare loro qualcosa, anche per il loro naturale disinteresse per le indicazioni degli umani. Mentre con i cani questo è molto più semplice.
Quali animali hanno i neuroni a specchio?
Leggi la seconda parte Siamo davvero unici nel regno animale? Ed è unico il nostro cervello? Gli animali, vogliamo dire il nostro cucciolo Kimi, hanno una coscienza? Sono domande che da sempre hanno impegnato filosofi, teologi e neuroscienziati. Circa il rapporto tra animali e coscienza, finora la risposta è stata sfuggente.
Alcuni autori considerano l’animale umano come parte di un “continuum” con gli altri animali, mentre altri riconoscono una “netta divisione” fra umani e animali. Gli studi finora riconoscono le enormi differenze presenti tra la mente e il cervello dell’uomo e le strutture cerebrali dei non umani. Invero, per lungo tempo gli animali sono stati considerati come misteriose entità, assumendo il significato di simboli religiosi (per gli Egizi), simboli moralistici (favole di Esopo), espressione della creazione divina (S.
Francesco), oggetto di divertimento venatorio (Federico II di Svevia), macchine insensibili (Cartesio). Con Darwin, il comportamento viene per la prima volta considerato un carattere della specie, che si è affermato a seguito di un processo evolutivo.
Egli fu anche il primo a dare importanza alle attività psichiche degli animali e ad affrontare scientificamente il problema dell’istinto e dell’apprendimento. Gli esseri umani hanno una capacità “innata” di comprendere che i loro simili possiedono menti dotate di desideri, intuizioni, credenze e stati mentali diversi.
Questa capacità è stata chiamata per la prima volta “teoria della mente” (TOM) nel 1978 da David Premack. La qualità di osservare il comportamento altrui e inferire gli stati mentali interiori è già presente nei bambini di quattro-cinque anni di età. Ci sono addirittura indici della presenza della TOM persino prima dei due anni di età (Striedter).
I soggetti che presentano sindrome di autismo hanno deficit legati alla teoria della mente e ai neuroni specchio. Oggi la più grande sfida della nuova scienza del cervello è quella di scoprire in che modo funziona la mente. La maggior parte dei processi cerebrali ha luogo senza che noi ne siamo consapevoli (Posner).
La funzione del cervello, infatti, presenta due aspetti fondamentali: ciò che accade a livello cosciente e ciò che accade a livello non cosciente. In realtà, la coscienza è un fenomeno che riguarda la dimensione soggettiva, introspettiva dell’essere umano, riguarda i suoi stati d’animo.
I quali purtroppo non ci possono dare una risposta certa, poiché gli stati d’animo- chiamati “qualia” dai neuro scienziati- “non sono misurabili in maniera oggettiva” (Dehaene). Ci sono dunque autori che affermano che l’essenza della coscienza non può avere una spiegazione scientifica, ossia che è tanto “fantastica” da non poter essere spiegata attraverso i neuroni, le sinapsi o i neurotrasmettitori.
“Ignoramus ignorabimus”: siamo condannati all’ignoranza eterna? Non è assolutamente così. Ci sono in effetti altri studiosi che ritengono che possa essere possibile decifrare quell’elemento così “unico” che chiamiamo coscienza. Tentare allora di avvicinarci alla mente e alla coscienza con i metodi scientifici rappresenta un’impresa persino più fantastica e affascinante.
- In questi ultimi anni, le nostre conoscenze sul cervello sono progredite enormemente, soprattutto in virtù degli eccezionali avanzamenti delle metodiche di neuro imaging funzionale.
- Prima gli studi negli anni Ottanta del secolo scorso di Francis Crick con l’opera “La scienza e l’anima” poi le ricerche di Edelman, Kandel, Damasio, Gazzaniga e tanti altri, hanno definitivamente sancito che lo studio scientifico delle basi neurali della coscienza e della mente è “empiricamente possibile sul piano teorico e sperimentale” (Gazzaniga).
COSCIENZA SENTIMENTI ED EMPATIA NEGLI ANIMALI Gli esperimenti condotti sugli animali dunque rappresentano il miglior modo di studiare il cervello e la mente umana. Le ricerche mostrano che esistono molti livelli di coscienza. E’ generalmente accettato- scrive Gazzaniga- che i mammiferi “siano coscienti del qui e adesso”.
La questione principale tuttavia è che non siamo in grado di elaborare un esperimento che possa valutare il grado di coscienza di un animale non verbale. Anche se non possiamo fare esperienza della coscienza dei membri di altre specie, possiamo inferire che animali come i cani “siano coscienti” (Edelman).
Questa affermazione si basa sul loro comportamento e sulla “stretta somiglianza tra il loro cervello e il nostro”. I cani e altri mammiferi sono dotati di “coscienza primaria”, che è consapevolezza delle cose del mondo “hic et nunc”. Un po’ come l’illuminazione di una stanza buia da parte di un raggio di luce.
Non sono “coscienti di essere coscienti”. Non sono dotati cioè di coscienza di “ordine superiore” come noi. Gli scimpanzé possono usare simboli, facoltà che potrebbe rivelare l’esistenza di un segno di “coscienza superiore” (coscienza di coscienza). Per coscienza intendiamo la capacità di possedere un certo livello di autoconsapevolezza.
Ciò significa essere oggetto della propria attenzione. Si va dal semplice essere consapevoli degli stimoli ambientali- “Io sento la musica delle onde del mare”- sino alla possibilità di “concettualizzare” le informazioni su di sé che necessitano di essere determinate in maniera astratta- “Io sono un soggetto romantico”-.
Gli studiosi si sono concentrati su due ambiti: l’autoconsapevolezza animale e la metacognizione animale, cioè pensare di pensare. Analizzando l’autoconsapevolezza animale, Marc Hauser scrive che “tutti gli organismi sociali che si riproducono sessualmente sembrano essere dotati di meccanismi neurali per discriminare i maschi dalle femmine, i cuccioli dagli adulti e i parenti dagli estranei”.
Molti sistemi differenti si sono evoluti per aiutarci- chiarisce Gazzaniga- a identificare i parenti dagli estranei. Un sistema che molti uccelli possiedono è l’imprinting. Il primo individuo che vedono è la madre. Le api e le vespe riconoscono la loro colonia dall’odore, gli scoiattoli utilizzano l’odore per il riconoscimento e i pipistrelli riconoscono i loro piccoli tra migliaia di altri attraverso la comunicazione vocale e olfattiva (J.M.Mateo).
Gli esperimenti attuali mostrano che gli animali non hanno memoria episodica e non sono in grado di “viaggiare nel tempo” con l’immaginazione. Di recente, alcuni studi hanno cercato prove dell’esistenza di forme di metacognizione animale nei ratti. Le prospettive sono attraenti, ma necessitano di ulteriori verifiche.
Invero, dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali si sta rivelando un compito complesso, delicato e difficile. Attribuire agli animali azioni coscienti costituisce una forte tentazione, è qualcosa che affascina. Finora, il problema è stato affrontato da due prospettive diverse.
- Una si basa sull’auto riconoscimento allo specchio, l’altra sull’imitazione.
- Lo scienziato Gordon Gallup ha esaminato il problema, realizzando un test durante il quale anestetizzava alcuni scimpanzé, metteva loro un segno rosso su di un orecchio e sul sopracciglio e poi, quando si erano ripresi dall’anestesia, li metteva davanti a uno specchio.
Prima non toccavano i loro segni rossi, ma una volta che veniva presentato loro lo specchio gli scimpanzé lo facevano. Lasciati davanti allo specchio, dopo un po’ cominciavano a osservare parti del loro corpo. Non tutti gli scimpanzé manifestavano tuttavia la capacità di riconoscersi allo specchio (MSR).
Due delfini e uno su cinque elefanti, testati in due studi diversi, hanno anch’essi superato il test del segno rosso (Povinelli). La capacità di auto riconoscersi nei primati, nei delfini e negli elefanti denota un’evoluzione convergente dovuta all’interazione di fattori biologici con fattori ambientali (Gallup).
Essa implica altresì che il soggetto è in grado di compiere un’astrazione. E’ capace di “razionalizzare” (Anderson). Altre specie animali che dimostrino di possedere una MSR finora non sono state trovate. Questo è il motivo per cui il nostro cucciolo Kimi non sembra affatto interessato quando cerchiamo di farlo guardare allo specchio.
L’ipotesi di Gallup è che l’auto riconoscimento allo specchio implica la presenza di un concetto di sé e un’autoconsapevolezza. I bambini superano il test del segno rosso all’età di due anni, dimostrando di avere la MSR. L’altra prospettiva per dimostrare l’autoconsapevolezza negli animali è l’imitazione.
Se si è capaci di imitare le azioni altrui, allora- sostiene Joseph Call, che ha analizzato lo stato attuale della ricerca in questo campo- si è anche capaci di distinguere tra le proprie azioni e quelle dell’altro. Esistono evidenze di imitazione nel mondo animale.
La maggior parte delle prove nei primati tuttavia indica una capacità di “riprodurre” il risultato di un’azione, non di “imitare” l’azione in sé. Alcune ricerche rivelano la presenza di un comportamento di “pianificazione” negli oranghi, nei bonobo (Mulcahy,Call) e nelle ghiandaie (Clayton). Le quali nascondono diversi tipi di cibo in luoghi differenti, in momenti diversi e vanno poi a ricercare il cibo in maniera selettiva, cercando prima il cibo che deperisce, e mangiandolo, rispetto al cibo che si conserva meglio.
I risultati di questi studi suggeriscono che la pianificazione “non è una capacità unicamente umana”. Al centro della ricerca neuro scientifica c’è l’esigenza di capire in che modo la coscienza si sviluppa e da dove viene, quali sono cioè le sue origini filogenetiche.
- Gli studi sperimentali degli istinti animali mostrano che i primi “segni” di coscienza si manifestano nel regno animale, a partire dalle “emozioni primordiali” come la sete, la fame, il bisogno d’aria, il desiderio sessuale, l’appetito per i soli minerali.
- Queste emozioni- rileva Denton- sono indispensabili alla sopravvivenza degli organismi viventi.
Le ricerche sugli animali- dagli insetti ai polpi, dai pesci ai vertebrati- dimostrano che l’emozione primordiale di questi bisogni e la loro gratificazione costituiscono “una pietra miliare” sul percorso che porta alla nascita della coscienza. Le emozioni primordiali formerebbero una sorta di primo “Sé” per arrivare poi all’elaborazione di quella che Denton chiama una “scena interiore” della coscienza.
La quale è la capacità di riconoscere la “differenza” tra i propri pensieri e le informazioni sensoriali provenienti dal mondo esterno (Brentano). L’idea avanzata da molti scienziati è che le emozioni primordiali costituiscano la prima comparsa della coscienza (Damasio). Questo assunto mostra che la coscienza non è una facoltà esclusivamente umana.
Le dimostrazioni condotte da Derek Denton ci offrono un’analisi precisa dei diversi comportamenti osservati negli animali. Comportamenti che hanno portato gli scienziati a formulare stupefacenti domande. Le api, per esempio, possiedono una coscienza collettiva? Il pesce può soffrire? Qual è la differenza tra la coscienza di un polpo e quella di un mammifero.
Che cosa succede nel nostro cervello quando proviamo la sensazione di avere sete, quando beviamo e quando ci siamo dissetati? E che cosa accade con l’orgasmo? Presenta tratti in comune con la soddisfazione della sete? Il neuroscienziato Denton riporta un caso illuminante. Una rana in stato di disidratazione viene collocata a pochi centimetri da una vasca d’acqua.
Non farà nulla per cercarla e si lascerà morire. Posta nelle stesse condizioni, una lucertola invece cercherà l’acqua, la scoprirà e la berrà. Le strategie elaborate poi da un piccolo mammifero saranno ancora più sofisticate di quelle della lucertola. La ricerca di una fonte d’acqua, in realtà, richiede molteplici conoscenze: la mappa dell’ambiente, il punto in cui si trova l’acqua, il tragitto da compiere, l’eventuale presenza di predatori.
Queste operazioni sono attivate dalle connessioni neurali, le quali contribuiscono a “collegare” le molte aree cerebrali implicate. Si sviluppa così un sistema di “integrazione” che centralizza le informazioni, creando uno spazio nel quale- grazie alla corteccia cerebrale- si elabora una “pianificazione cosciente” dei comportamenti a venire.
Le emozioni primordiali dunque svolgono un ruolo cruciale negli stati di coscienza. Una delle qualità essenziali della mente è il possesso della facoltà di utilizzare “simboli” (Kenny). A questo proposito Donald Griffin, un autore che ha un ruolo fondamentale nell’aver posto in primo piano il tema della coscienza negli animali, cita il simbolismo insito nella danza delle api- “waggle dance”.
E’ l’attività dell’ape a fare della sua danza un mezzo di comunicazione simbolica, come la ricerca di una nuova dimora, la ricognizione di luoghi e fonti di cibo o la ricerca di informazioni sulla qualità, la direzione e la distanza del luogo. Questi comportamenti evidenziano che le api sono in grado di esprimere “pensieri semplici”.
62 – Quanti anni umani ha il tuo cane o gatto? Scopri nel video come calcolare l’età del tuo pet
Le informazioni sensoriali e la categorizzazione percettiva di segnali visivi portano in sostanza alla definizione di coscienza, che è la capacità di costruire- secondo Edelman- una “scena mentale integrata” nel presente. Circa i processi cognitivi di apprendimento e memoria, esperimenti condotti sulle attitudini cognitive dei piccioni hanno rivelato che questi uccelli sono capaci di distinguere i colori e a riconoscere, tra decine di fotografie, quelle che ritraggono figure umane, alberi o palazzi (Herrnstein).
I pulcini invece imparano ad evitare di ingerire cibo o di bere un liquido dal sapore amaro. L’idea che nei pesci possa esistere qualche forma di coscienza è contestata da J.D.Rose, il quale basa il suo pensiero sul fatto che i pesci non possono provare dolore. E’ valutazione condivisa che per esprimere il dolore occorre essere coscienti.
La consapevolezza del dolore dipende da specifiche regioni cerebrali. Nei pesci queste regioni mancano, ragione per cui mancano i requisiti neurali necessari per sentire il dolore. L’argomento dei fenomeni mentali nei rettili, animali che costituiscono la derivazione di un ceppo ancestrale da cui sono discesi sia i mammiferi sia gli uccelli, è stato affrontato in particolare da Gordon Burghardt, il quale sostiene che i rettili dovrebbero essere studiati quali “precursori filogenetici” di tutti gli animali dotati di comportamenti complessi.
- E’ stato lo studioso G.G.Romanes, amico di Darwin, ad attribuire ai rettili “emozioni e intelletto”.
- Quando avverte la presenza di un predatore, il serpente “Heterodon nasicu”, ha osservato Burghardt, simula la morte, resta immobile, la bocca aperta, la lingua stesa in fuori e la sua respirazione sembrerà cessata.
Risposte di immobilità sono state osservate anche in molti mammiferi e in uccelli. Con la simulazione della morte nel serpente, si ottengono dati sperimentali che “concordano” con le ipotesi di Griffin di uno stato di coscienza negli animali. Gli esperimenti compiuti da J.S.Beritoff sulla memoria delle immagini nel cane e sui comportamenti di lucertole, tartarughe, uccelli, babbuini e gatti mostrano che i loro atteggiamenti intenzionali sono indice di “una immagine mentale” e dunque sono espressione di una “coscienza”.
- L’idea di intenzione, così come l’idea di obiettivo, è per Longuet-Higgins “parte integrante del concetto di mente”.
- Si può quindi ritenere che un organismo capace di avere “intenzioni” possegga “una mente” per elaborare un piano e prendere una decisione.
- Oggi, è abbastanza comune fra gli scienziati- citiamo per tutti Young, Hebb e Hoch- considerare le risposte di un animale “il possibile prodotto di processi coscienti e di processi mentali”.
Già Darwin aveva osservato molti aspetti del comportamento animale, in particolare le emozioni, come riflessi di “stati coscienti”. Come osserva Miriam Rothschild, chiunque metta in dubbio la capacità degli animali di provare emozioni dovrebbe provare a portare un cane dal veterinario dopo che ci è già stato una prima volta.
- E’ un’esperienza che abbiamo fatto personalmente prima con Apollo alcuni anni fa e ora con il cucciolo Kimi: soltanto attraversare la strada in cui ha sede lo studio del veterinario, crea uno stato di irrequietezza e di ansia.
- I dati ottenuti da Changeux e colleghi fanno inoltre ritenere che anche i topi dimostrano un comportamento complesso volto al raggiungimento di un obiettivo.
In realtà, l’idea di obiettivo e di intenzione, come abbiamo già detto, è parte integrante del concetto di mente. Concludendo su questo delicatissimo e complesso tema, possiamo dire che i risultati della ricerca portano al centro dell’analisi sia il concetto di Griffin, forse il massimo esponente in materia, di una coscienza negli animali (rectius: in molti animali c’è un certo livello di coscienza) sia l’idea di altri autori come Longuett-Higgins sul comportamento intenzionale quale espressione di “un’immagine mentale”.
- Per comprendere in maniera ancora più chiara la questione, diciamo che la funzione della coscienza è subordinata al fatto di essere “innestata” in un corpo, cioè alla consapevolezza del proprio stato corporeo in relazione a ciò che ci succede intorno.
- E’ lo stato corporeo che genera sensazioni e sentimenti.
E la coscienza è costituita da sensazioni. Ciò fa ritenere che qualsiasi animale dotato di un tronco encefalico sia in grado di servirsi della coscienza. Tutti i mammiferi hanno un tronco con nuclei e connessioni strutturati pressappoco come i nuclei umani (Solms, Turnbull).
Vi sono buoni motivi per stimare che cani, gatti pinguini, balene, ratti e topolini possiedano una coscienza. Le stesse strutture elementari rendono un topo e un essere umano egualmente capaci di distinguere tra ciò che è “buono” e ciò che è “cattivo”. I topi, ad esempio, possono sentire un eccitante piacere quando si aspettano il soddisfacimento di un bisogno; provano paura in presenza di un nemico; sentono rabbia quando viene loro impedito il raggiungimento di una meta desiderata; soffrono se vengono separati dalla madre o dai propri simili, e così via.
Esistono, al riguardo, percezioni e reazioni affettive in larga parte di tipo innato e universale. Queste reazioni affettive vengono chiamate “emozioni di base”. La vista di un serpente, per esempio, determina sia nell’uomo che nel cane un sentimento di paura.
Noi condividiamo con tutti gli altri mammiferi tali “emozioni di base”. I cani, i gatti, i delfini, le balene, i ratti, i topi: tutti possiedono i meccanismi adattativi, cioè le “emozioni di base”. Le quali sono per l’appunto gli elementi costitutivi della coscienza. Come volevasi dimostrare. Vi sono tuttavia livelli “superiori” di coscienza, come “coscienza di coscienza”, che non condividiamo con gli altri mammiferi.
Oggi, gli studi più recenti che cercano prove di una qualche forma di metacognizione animale sono attraenti, ma necessitano di ulteriori approfondimenti prima che se ne possano trarre conclusioni definitive. Il fatto è che il nostro cervello- per usare una bella immagine di Gazzaniga- è simile a “un organo a canne, che suona la sua musica tutto il giorno e ha molte melodie da suonare”, mentre il cervello dell’animale ne ha poche.
- Più cose allora sappiamo, migliore è “il concerto”.
- GENI, NEURONI SPECCHIO E CULTURA NEGLI ANIMALI Le scimmie- è una grande scoperta di questi anni- possiedono i neuroni specchio.
- I quali sono stati localizzati per la prima volta proprio nel cervello delle scimmie.
- Essi si attivano quando, ad esempio, una scimmia afferra un attrezzo; ma si attivano anche quando la scimmia guarda un’altra scimmia afferrare l’oggetto.
Il sistema dei neuroni specchio è alla base del riconoscimento delle intenzioni e delle emozioni altrui, rende possibile l’apprendimento imitativo e la comunicazione. Gli animali perciò apprendono la cultura. Uno studio ha mostrato che almeno 39 tipi di comportamenti diversi negli scimpanzé sono effetti della cultura.
Il colore, definito da Kandinsky “un mezzo per influenzare direttamente l’anima”, ha un impatto considerevole non soltanto sugli esseri umani, ma anche sugli animali. Nel corso delle sue ricerche, Humphrey ha scoperto che le scimmie “rhesus” di fronte alla luce rossa hanno “forti risposte emozionali”: diventano ” ansiose, irrequiete e agitate”, mentre quando la luce è blu divengono tranquille.
Nell’ordine, esse preferivano il blu al verde, il verde al giallo. il giallo al rosso. In genere, anche gli esseri umani mostrano gli stessi comportamenti. Descrivono la sensazione del rosso come “forte, calda, eccitante e disturbante”. Si è scoperto altresì che la luce rossa suscita comportamenti aggressivi e litigiosi (Porter), nonché sintomi fisiologici dell’eccitazione sessuale.
- A livello generale, i nostri cervelli e quelli degli scimpanzé sono strutturati in maniera quasi “identica” (Marcus).
- Entrambi hanno cortecce occipitali nel retro del capo, dove analizzano le informazioni.
- Entrambi poi hanno i cervelli suddivisi in emisfero destro e sinistro.
- Dal punto di vista evolutivo, ci siamo separati dagli scimpanzé solo di recente, forse solo dai 4 ai 7 milioni di anni fa (Brunet) rispetto ai circa 85 milioni di anni da quando esistono i primati (Tavare e Martin).
Il linguaggio e la mente umana vengono da quell’1,5 per cento di materiale genetico che ci separa dagli scimpanzé, ma anche dal 98,5 per cento che è condiviso. Gli umani e le grandi scimmie, come gli oranghi, i gorilla, gli scimpanzé, si sono evoluti tutti – afferma Gazzaniga- da “un antenato comune”.
- L’essere umano è l’unico ominide sopravvissuto del ramo originario separatosi dall’antenato comune con lo scimpanzé.
- E’ il caso di Lucy, fossile trovato nel 1974 che sconvolse il mondo della scienza in quanto bipede, ma priva di un cervello di grandi dimensioni.
- Nel tempo, la nostra anatomia corporea è cambiata, fornendo le basi necessarie per lo sviluppo di alcune caratteristiche che ci rendono unici.
Il bipedismo ha reso le mani libere di agire. I nostri pollici arcuabili e opponibili ci hanno permesso di sviluppare la migliore coordinazione motoria tra le specie. La nostra laringe poi ci ha permesso di emettere un numero infinito di suoni che noi utilizziamo nel linguaggio.
- Altri cambiamenti sono avvenuti inoltre nel nostro cervello, cambiamenti che ci hanno permesso di comprendere che gli altri hanno pensieri, credenze e desideri.
- Anche gli uccelli, come le api e gli altri animali, mostrano attitudini all’apprendimento.
- Nei loro cervelli vi sono regioni associate al rilevamento del gusto, dell’odore e del suono, al movimento, alla memoria spaziale e all’apprendimento del canto.
Alcuni uccelli come i canarini possono imparare un numero di canti sottilmente differenti. Altre specie- le cince e le ghiandaie- sono capaci di fare scorta di centinaia di alimenti differenti durante l’estate per poi farne uso durante l’inverno. Sembra che imparare una canzone richieda sistemi neurali diversi nell’uccello canoro.
I castori costruiscono dighe e proteggono il loro confine con ramoscelli e fango, mentre i ragni filano le ragnatele. La lumaca raccoglie il calcio dal suo cibo e lo usa per secernere una conchiglia. A sua volta, il paguro si procura una conchiglia di calcio già fatta. L’organizzazione di una colonia di termiti è così meravigliosa che alcuni osservatori hanno pensato che ogni colonia deve avere un’anima (Marais).
Ci sono specie che riescono a colpirci per la loro capacità di “godersi la vita e divertirsi”. Pensiamo alle lontre, le quali si rotolano gaie nella neve, ai leoncini che si danno la caccia e ai nostri cani e gatti. Con gli altri animali condividiamo inoltre la maggior parte dei nostri geni e dell’architettura del nostro cervello.
- Affermare- come fa il neuroscienziato Gazzaniga- che siamo “differenti” e unici nel regno animale, è una cosa ovvia, quasi banale.
- Sta di fatto che gli animali presentano sin dalla loro comparsa istinti innati.
- I pulcini, ad esempio, appena usciti dal guscio sembrano avere la “permanenza” degli oggetti (Regolin).
Piccoli cuccioli di Labrador possono seguire lo sguardo dei loro padroni (Coppinger). I cavalli sanno controllare i propri muscoli abbastanza bene da saper camminare già pochi minuti dopo la nascita. Anche i comportamenti più complessi sembrano innati.
Nella danza di corteggiamento del maschio di un moscerino della frutta, per esempio, il piccolo animale esegue una sequenza di eventi che non ha mai visto prima. I riflessi di auto-igiene di molti animali obbediscono spesso a comportamenti prefissati. Un topo inizia con il capo, procede verso il tronco e la regione ano-genitale e finisce con la coda (Sachs).
Molti, forse tutti, gli animali non solo nascono con la capacità di percepire e agire, ma anche con la capacità di imparare e di utilizzare le esperienze passate per migliorare i comportamenti futuri (Marcus). Un comportamento che Marler ha definito “l’istinto a imparare”.
- Il mondo animale- afferma Gallistel- è pieno di attitudini all’apprendimento.
- Pensiamo al comportamento di un uccello chiamato “ministro”, il quale usa le stelle come una carta nautica per trascorrere l’estate negli Stati Uniti e svernare alle Bahamas.
- Le api a loro volta utilizzano un meccanismo di apprendimento per aiutarsi a comprendere dove stiano andando, basandosi sulla traiettoria del sole.
Due studiosi dell’Università della Georgia hanno dimostrato che anche i ratti possiedono la capacità di riflettere sui propri pensieri. Capacità che viene chiamata metacognizione. I ratti imparano a evitare di bere da un getto d’acqua se ogni volta che lo fanno ricevono una scarica elettrica.
- Hanno inoltre capacità di apprendimento olfattivo.
- Gli studi di Kandel sulla lumaca marina “Aplysia” sono stati fondamentali per indagare le basi neurali dell’apprendimento e della memoria.
- Anche la ricerca sul Moscerino della frutta “Drosophila” è stata determinante ai fini della conoscenza del comportamento e del funzionamento del cervello.
GLI ANIMALI HANNO UN SENSO MORALE ? Ci sono comportamenti comuni che condividiamo con altre specie. Ci arrabbiamo di fronte alle violazioni di proprietà o agli attacchi alla nostra coalizione intenta a raccogliere cibo, proprio come fanno i cani e gli scimpanzé.
In questo senso, noi diciamo che alcuni animali possiedono una “moralità imitativa” (Gazzaniga). La principale differenza consiste nel fatto che gli esseri umani possiedono una maggiore qualità, quantità e varietà di emozioni morali, come per esempio, la vergogna, il senso di colpa, il disgusto, il disprezzo, l’empatia, la compassione, nonché una maggiore varietà di comportamenti.
La ricerca mostra che in realtà esiste la possibilità che alcune capacità che sottendono la nostra facoltà morale siano presenti in animali non umani. Gli animali provano emozioni che motivano azioni che “possiedono una specificità morale”, come aiutare, danneggiare gli altri, così come riconciliare le differenze allo scopo di “ottenere un po’ di pace” (Hauser).
Gli animali possiedono forme di empatia? Intendiamo per empatia un sistema simile a quello dei neuroni specchio, che implica la capacità di provare la stessa cosa che prova qualcun altro. L’evidenza di forme di auto riconoscimento nei delfini denota un nesso tra imitazione, empatia e senso del sé. Anche agli elefanti vengono associati comportamenti sociali e comportamenti empatici.
C’è poi qualche prova che gli scimpanzé abbiano una sensibilità estetica? Esperimenti condotti in materia hanno riscontrato che se provvisti di matite o colori, gli scimpanzé si appassionavano nell’utilizzarli, fino al punto di trascurare addirittura “i loro cibi preferiti”.
- Ad alcuni di essi piace disegnare.
- Una serie di dipinti fatti da uno scimpanzé è stata recentemente venduta all’asta per “dodicimila sterline” (Gazzaniga).
- In letteratura scientifica c’è anche il caso dell’uccello giardiniere, che ha “eccellenti doti” di architetto e artista, in quanto per attirare la femmina costruisce grandi giardini multicolori di steli intrecciati (Ramachandran).
L’ANSIA NEGLI ANIMALI Per ansia, intendiamo una normale risposta innata a una minaccia o all’assenza di persone o di oggetti che assicurino o trasmettano sicurezza. Essa si manifesta in forma sia soggettiva- che va da un accentuato stato di vigilanza al senso di catastrofe imminente- che oggettiva come marcata reattività, stato di irrequietezza, modificazioni neurovegetative (variazione della frequenza cardiaca e della pressione del sangue).
- L’ansia può avere un valore di adattamento, preparandoci ad affrontare un potenziale pericolo e a farci superare circostanze difficili.
- Quando diventa forte e persistente, l’ansia è patologica.
- Questa patologia inoltre è una componente dei disturbi psicotici e nevrotici.
- Il disturbo d’ansia è stato studiato, impiegando modelli animali.
L’ansia è una condizione tipicamente umana, ma è stato scoperto che anche animali meno complessi possono apprendere una risposta ansiosa. Forme d’ansia sono state studiate in animali come i ratti e le scimmie. Quello che è sorprendente è la scoperta di Kandel, neuro scienziato e premio Nobel, che anche animali più semplici, come la lumaca marina, “Aplysia”, vanno incontro a modificazioni comportamentali.
In modo simile a quanto avviene nell’uomo, gli animali mostrano comportamenti che evocano l’ansia anticipatoria (la paura). Recenti scoperte mostrano che “qualunque” forma di ansia si manifesta in “qualunque” animale (Kendal). Grande rilievo assumono gli esperimenti condotti sui roditori. Si è scoperto che i cuccioli di topo manifestano comportamenti reattivi alla separazione, consistenti in ripetuti richiami, in un comportamento agitato e di disperazione, nella tendenza a pulirsi compulsivamente il pelo, nella perdita di calore, nella perdita di cibo e nella perdita di stimolazione tattile (Hofer).
Gli esperimenti hanno poi dimostrato che la maggior parte degli animali, tra cui l’uomo, possiede un repertorio di comportamenti difensivi innati. Prima Pavlov poi Freud hanno riconosciuto che l’ansia può essere appresa e acquisita, e conservata tramite la memoria, senza tuttavia escludere il contributo di una predisposizione genetica.
- Gli animali dunque possono imparare varie forme di ansia come l’ansia anticipatoria e l’ansia cronica.
- Non solo il cane e l’uomo, ma la maggior parte dei primati mostrano sintomi di paura e di disgusto nei confronti dei serpenti.
- L’odio verso i rettili ha un’origine biologica.
- Questa avversione viene motivata dal fatto che i serpenti evocano una particolare e intrinseca sensazione di repulsione attivata dai sistemi cerebrali di predisposizioni innate.
Queste producono ansietà e paura, presentano varie implicazioni di pericolo e di violenza e favoriscono il rilascio di adrenalina, dando l’avvio a comportamenti di fuga o di combattimento. TERAPIE DELL’ANSIA Ci sono due tipi di terapia: la prima è la cura con gli psicofarmaci: molecole “capaci” di arrivare direttamente al cervello.
Quanto è grande il cervello di un cane?
Cane o gatto? Bella lottaVince Fido perché è più utile DA SEMPRE, il mondo è diviso tra fan dei cani e fan dei gatti: una scelta che è molto più di una semplice affermazione di preferenza. Dietro la militanza nell’una o nell’altra fazione si nascondono, infatti, vere e proprie filosofie di vita, modi di essere e di vedere se stessi e gli altri.
Anche per questo, il senso comune porterebbe molti di noi a respingere qualsiasi tentativo di stabilire un vincitore tra Fido e Felix. Semplicemente, dipende dal cane, dal gatto e soprattutto dal padrone. Eppure, diversi esperimenti sono stati fatti per misurare le capacità dell’uno o dell’altro, nell’obiettivo, spesso indiretto, di stabilire un primo in classifica.
A tirare le fila di anni e anni di ricerche è stata la rivista britannica New Scientist, che ha deciso di “raccogliere la sfida” e provare a dare un valore scientifico alla presunta contesa. Con un risultato che non può che lasciare l’amaro in bocca ad una delle due parti: in questo caso i “gattari”, sconfitti per un pelo con un punteggio di 5 a 6.
- Ma vediamo come si è arrivati a questo risultato, che incorona i cani come “animali domestici superiori”.
- Testa a testa.
- L’analisi di New Scientist mette a confronto cani e gatti in undici categorie: cervello, storia condivisa, legami, popolarità, comprensione, probem solving, trattabilità, capacità vocali, sviluppo sensoriale, impatto ambientale e utilità.
Dopo un avvincente testa a testa, sono proprio i cani a guadagnare la medaglia d’oro, posizionandosi al primo posto in sei categorie su undici. Cervello. Con un peso medio di 64 grammi, il cervello dei cani è più grande rispetto a quello dei loro “rivali”, la cui materia grigia pesa in media solo 25 grammi.
Tuttavia, se si considera la massa cerebrale come percentuale della massa corporea, la valutazione cambia, assegnando il primato ai felini. In questo caso, a far pendere l’ago della bilancia è un dato anatomico, vale a dire il numero di neuroni che affollano la corteccia cerebrale. Il risultato è schiacciante: 300 milioni di neuroni a favore dei gatti, contro i 160 milioni dei cani.
Uno a zero per Felix. Storia condivisa. Il cane, si sa, è amico dell’uomo da migliaia di anni. Secondo alcuni studi realizzati dall’Università della California, il primo evento di addomesticazione risale ad almeno 50.000 anni fa. Anche i gatti hanno una lunga storia di contatti con gli esseri umani, come dimostra il ritrovamento di diversi reperti nell’antico Egitto e a Cipro.
- Su questo punto, però, sembra non esserci storia: i cani sono da più tempo nel cuore degli uomini, fosse anche inizialmente come animali da allevamento.
- Uno pari e palla al centro. Legami.
- Ad aggiudicarsi questo punto è, ancora una volta, Fido, che secondo gli scienziati ha una relazione con il proprio padrone simile a quella tra madre e figlio.
Qualsiasi amante dei gatti, d’altronde, non avrebbe problemi ad ammettere l’indipendenza del proprio beniamino, che anzi può essere considerata un pregio piuttosto che una carenza d’affetto. I cani, dal canto loro, hanno una tendenza spontanea all’affiliazione, che nel corso del tempo si è trasformata in una maggiore propensione ad essere addomesticati.
- Fido di nuovo in vantaggio: 2 a 1.
- Popolarità.
- Secondo i ricercatori consultati da New Scientist, il miglior modo per stabilire l’indice di gradimento dei due animali è considerare la loro diffusione nelle case di tutto il mondo.
- Il primato, allora, spetta ai gatti.
- Nei dieci paesi a maggioranza felina, infatti, i gatti sono oltre 204 milioni, mentre nei corrispettivi a maggioranza canina, si contano meno di 173 milioni di cani.
Parità ristabilita, dunque, ma ancora per poco. Comprensione, problem solving e trattabilità. Per quanto riguarda la capacità di capire gli esseri umani, i più bravi sembrano essere i cani. Partendo da casi illustri, come quello del border collie Rico, capace di comprendere il significato di oltre 200 parole, gli autori della ricerca assegnano il punto ai cani sulla base di una lunga serie di esperimenti.
- Tuttavia, avvertono, la maggiore predisposizione di Fido a comprendere azioni e intenzioni del proprio padrone potrebbe essere dovuta alla natura più “filiale” del rapporto, piuttosto che ad abilità logiche maggiormente sviluppate.
- Questo li renderebbe anche più socievoli e inclini alla pedagogia: un aspetto che ai gatti proprio non va giù, facendoli perdere anche sul versante “trattabilità”.
Lo stesso discorso vale anche per la capacità di risolvere problemi di natura logica (problem solving), più acuta nei cani forse solo perché più attenti ad osservare gli indizi preparati per loro dagli esseri umani. Resta il fatto che siamo a tre punti in più per Fido: 5 a 2, inizia l’ascesa del cane.
Vocalizzi e super-sensi. Su questo, i gatti sono imbattibili. Sebbene i cani godano di una maggiore flessibilità vocale, i felini sono in grado di modulare i loro vocalizzi su una gamma di suoni molto più ampia. Addirittura, sarebbero capaci di utilizzare “la voce” ad un livello subliminale, proprio come fanno i bambini quando variano l’intensità del pianto in base all’urgenza del capriccio.
Per quanto riguarda i sensi, i gatti superano i cani sia (a sorpresa) nell’olfatto, sia (prevedibilmente) nella vista e nell’udito: 5 a 4, Felix non si arrende. Impatto ambientale. I gatti amano la natura, si sa, ma i cani non sono da meno. La differenza, su questo, è data dai consumi.
L’impatto ecologico di un cane è molto maggiore rispetto a quello di un gatto. Basti pensare, ricorda New Scientist, che la superficie di terra necessaria per nutrire un cane di medie dimensioni per circa un anno è di 0,84 ettari; 0,28 nel caso di un chihuahua. I gatti, invece, si accontentano di 0,15 ettari all’anno.
Per questo meritano un punto in più: di nuovo 5 pari. Utilità. E’ qui che casca il gatto. Secondo gli autori, infatti, il cane è molto più “utile” rispetto al gatto: è in grado di cacciare, fare la guardia, guidare un cieco, correre per sport e persino scovare bombe, droga e feci di balena.
Per molti padroni, inoltre, la passeggiata quotidiana rappresenta pressoché l’unica occasione per muoversi un po’, introducendo una sana abitudine in vite altrimenti sedentarie. I gatti, dal canto loro, sono utilissimi in caso di ospiti indesiderati, come topi e insetti vari. Per non parlare, poi, del loro ruolo di soffici antistress.
Per questa volta, però, il premio è assegnato: largo alle critiche, ma è Fido il vincitore. : Cane o gatto? Bella lottaVince Fido perché è più utile
Quanti neuroni a una scimmia?
Brillanti teste d’uovo Sugli animal i e i loro cervelli circolano molte voci infondate. Il cervello umano, si dice, contiene 100 miliardi di neuroni. Ma da dove salta fuori questo numero? Una decina d’anni fa una giovane neuroscienziata brasiliana, Susana Herculano-Houzel, si era posta questa domanda.
- Dopo aver lungamente interrogato molti colleghi, anche più anziani ed esperti, si era resa conto che non esistevano in letteratura dati davvero convincenti sull’argomento.
- I libri di testo spesso menzionavano il numero magico di 100 miliardi, senza però fornire un preciso riferimento bibliografico.
- Insomma, la valutazione di cento miliardi sembrava più una diceria che un fatto acquisito.
C’era però una ragione per questo. Le stime sul numero di neuroni contenuti in un cervello si basavano su procedure cosiddette stereologiche, in cui si contano, guardandoli al microscopio, i neuroni su un certo numero di sottili fettine, tagliate in posizioni diverse, dalle quali poi si desumono per estrapolazione i valori complessivi.
Il problema è che fettine ottenute in porzioni diverse del cervello non mostrano la stessa densità di neuroni. Susana Herculano-Houzel ha inventato però un nuovo metodo, semplice e bellissimo. In pratica, lei fa sciogliere le membrane delle cellule lasciando i soli nuclei sospesi in una specie di zuppa omogenea (più tecnicamente, isotropica, cioè eguale in tutte le direzioni).
Poiché ogni cellula nel cervello contiene un solo nucleo, contare i nuclei equivale a contare le cellule. I nuclei dei neuroni e delle altre cellule del cervello (la glia) possono essere distinti tra loro nella zuppa con dei metodi che consentono di colorarli diversamente.
- Così facendo Suzana Herculano-Houzel ha potuto contare che i neuroni del cervello umano sono circa ottantasei miliardi.
- Quattordici miliardi in meno di quel che si pensava.
- Il metodo consente di misurare anche quanti neuroni ci sono nei cervelli delle altre specie, e qui sono venute nuove sorprese.
- L’intuizione ci indurrebbe a credere che a cervelli piccoli corrispondano meno neuroni, perché c’è meno spazio per contenerli.
Uno studio appena pubblicato ha però rivelato che la densità dei neuroni nei piccoli cervelli degli uccelli è paragonabile o più spesso addirittura superiore a quella dei primati. La questione della densità dei neuroni è importante. Non sorprende che un animale più grande abbia anche un cervello più grande (come minimo, gli servono più neuroni per portare a spasso un corpo di maggiori dimensioni).
- Ma prendiamo il caso, per capirci, di due specie, una di mammifero e una di uccello, i cui cervelli abbiano lo stesso peso.
- Per esempio quello di una scimmia come un galagone e quello di un cacatua ciuffogiallo.
- Il peso del cervello è di circa 10 grammi per ambedue le specie.
- Però il cervello del primate possiede circa 936 milioni di neuroni mentre quello del pappagallo ben 2122 milioni.
Oppure, ancor più impressionante, prendiamo un ratto e uno storno: 1.80 grammi di peso il loro cervello, quello del ratto però contiene solo 200 milioni di neuroni, quello dello storno più del doppio, 483 milioni di neuroni. In media, pappagalli e corvidi hanno circa il doppio dei neuroni delle scimmie di simile peso, e questa concentrazione elevata si osserva in special modo nel pallio, la regione dorsale, più esterna, del cervello, che nei mammiferi prende il nome di corteccia.
- Per esempio una scimmia cappuccina ha un cervello che è quasi quattro volte più grande di quello di un corvo comune (il primo pesa 39.18 grammi il secondo circa 10.2 grammi).
- Ma il corvo ha 1204 milioni di neuroni nel pallio, la scimmia cappuccina ne ha 1140 milioni nella corteccia.
- Un macaco ha in media un cervello che pesa cinque volte il cervello di un’ara gialloblu (69.83 grammi contro 14.38 grammi), e tuttavia ha solo 1710 milioni di neuroni nella corteccia contro i 1914 dell’ara.
Persino le specie di uccelli che sono più simili alle specie ancestrali, come il pollo di giungla (l’antenato del pollo domestico) o il colombo, che pure non brillano, in termini assoluti, nel confronto con i loro cugini pappagalli o corvidi, hanno comunque una densità di neuroni nel pallio paragonabile a quella delle scimmie.
Insomma, come affermano gli autori dell’ articolo, «il cervello degli uccelli ha la potenzialità di fornire un “potere cognitivo” per unità di massa molto più elevato di quanto sia possibile al cervello dei mammiferi». Appare evidente da queste considerazioni quanto sia azzardato dedurre alcunché dalle sole dimensioni del cervello.
Nel corso degli anni, si è cercato in vari modi di legare la superiorità cognitiva umana alle dimensioni dell’encefalo. Le dimensioni assolute ovviamente non vanno bene (le balene, ad esempio, hanno cervelli molto più grandi dei nostri). Ma anche le dimensioni relative non sono soddisfacenti, come, ad esempio, il rapporto tra peso del cervello e massa del corpo, oppure il quoziente di encefalizzazione, che misura il rapporto tra dimensioni del cervello e grandezza del corpo di un animale in relazione ad altri animali di simile grandezza.
- Il numero di neuroni può infatti variare in maniera differente nei diversi cervelli animali con il variare della loro grandezza.
- Nei primati, i neuroni aumentano con lo stesso tasso con cui si accrescono i cervelli.
- Se prendiamo un grammo di cervello da una scimmia piccola e un grammo da una scimmia grande, troveremo all’interno lo stesso numero di neuroni.
Nei roditori, invece, la grandezza dei cervelli aumenta più di quanto aumenti il numero di neuroni. Se prendiamo un grammo di cervello in un roditore più grande troveremo che contiene meno neuroni di un grammo di cervello di un roditore più piccolo. Da questo punto di vista, sostiene Suzana Herculano-Houzel, il cervello umano non è speciale: possiede esattamente il numero di neuroni che ci aspetteremmo di trovare in un primate con il cervello della sua stazza e, se potessimo aumentare le dimensioni del cervello di uno scimpanzé per fargli raggiungere le dimensioni del nostro cervello, osserveremmo che avrebbe grossomodo il valore atteso di 86 miliardi di neuroni.
Le dimensioni del cervello non sono probabilmente l’unica ragione per cui si è diffuso lo stereotipo della scarsa intelligenza degli uccelli. Contribuisce anche una malintesa concezione dell’evoluzione. L’idea, cioè, di un ordinamento temporale del tipo pesci- anfibi-rettili- uccelli-mammiferi che si rifletterebbe in una parallela scala lineare dell’intelligenza.
Come dire: ultimi arrivati sulla scena, meglio serviti in termini di dotazione neuro-cognitiva. Ma gli organismi che vivono oggi sul pianeta non sono eguali alle specie ancestrali da cui sono derivati, si sono evoluti anch’essi: il pesciolino che vediamo nuotare nello stagno non è la medesima creatura che ad un certo punto ha dato l’abbrivio, come si racconta nei documentari, al famoso «passaggio della vita sulla terra», ma un suo tardo discendente.
E non è vero che gli uccelli siano comparsi prima dei mammiferi: i primi mammiferi sono comparsi attorno a 230 milioni di anni fa, gli uccelli un po’ dopo, 160 milioni di anni fa. I risultati di Herculano-Houzel e collaboratori mostrano come sia necessario ragionare sui cervelli nei termini delle pressioni selettive che ne hanno determinato l’evoluzione e lo sviluppo.
La funzione del volo ha imposto agli uccelli di minimizzare il loro peso, incluso quello del cervello. Ma come possono con cervelli così piccoli avere così tanti neuroni? Quasi certamente i neuroni degli uccelli sono più piccoli e sono impacchettati più densamente.
L’architettura che ne risulta è per certi versi peculiare, perché le cellule nervose hanno bisogno di un sistema per connettersi tra loro, che è fornito da dendriti e assoni. Per garantire connessioni a lungo raggio tra i neuroni è necessario che questi siano abbastanza grossi. Le connessioni a lungo raggio sono tipiche della corteccia dei mammiferi, che è organizzata a strati, come un sandwich.
Con neuroni piccoli, invece, risulta favorita la connettività locale su quella a lunga distanza: il cervello degli uccelli assomiglia ad una pizza piuttosto che a un sandwich, è fatto di nuclei nei quali i neuroni sono addensati e fortemente interconnessi.
Un numero relativamente limitato di neuroni più grandi supporta invece connessioni a lungo raggio. Si tratta di un tipo di connettività che è stata studiata dai matematici nella cosiddetta teoria dei grafi, ma che ci è familiare perché caratterizza reti sociali come per esempio Internet. Queste reti, dette small world, sono composte da agglomerati di nodi fortemente connessi tra di loro, ma collegati con altri agglomerati tramite legami più deboli, secondo una distribuzione che obbedisce a una legge potenza.
Le reti small world si ritrovano in ambito sociale, biologico e tecnologico, e sono caratterizzate da un’elevata capacità di diffondere i segnali in modo veloce ed efficiente avendo pochi gradi di separazione tra i nodi (ricorderete la famosa ipotesi secondo cui ogni persona può essere collegata a qualunque altra attraverso una rete di conoscenze e relazioni con non più di cinque intermediari).
Forse le proprietà di queste reti sono alla base delle sofisticate capacità di elaborazione delle informazioni di uccelli come i pappagalli e i corvi. D’altro canto rimane da capire quali specifici benefici (e costi) siano associati a un’organizzazione laminata o a nuclei del tessuto nervoso. La lezione più importante che ci viene da questi studi è che ci sono modi diversi (sebbene certamente non infiniti) di costruire cervelli efficienti; il modello mammifero non rappresenta il vertice della creazione, solo una delle possibili soluzioni.
Olkowicz et al, Birds have primate-like numbers of neurons in the forebrain, Proceedings of the National Academy of Sciences USA, published online June 13, 2016; doi: 10.1073/pnas.1517131113 © Riproduzione riservata Argomenti: : Brillanti teste d’uovo